martedì 15 luglio 2014

Musicoterapia e oncologia


LA MUSICOTERAPIA IN ONCOLOGIA A cura di Rossana Berardi, Ricercatrice c/o Clinica di Oncologia Medica Università Politecnica delle Marche, Ancona Quando un medico comunica ad un paziente una diagnosi di tumore, questi e la sua famiglia vedono concretizzarsi tutte le paure e le ansie che erano presenti nel periodo di attesa del responso clinico. Come aveva intuito Balint già nel 1957, quando pubblicò a Londra il suo famoso testo “Medico, paziente, malattia”, rivoluzionando quelle che erano le teorie in campo di Psicologia Medica, il paziente, che già sta compiendo una faticosa lotta contro la malattia di cui è affetto, va dal medico che “sa” chiedendogli informazioni ed aiuto ed instaurando, così, una specifica situazione relazionale medico-paziente, all’interno della quale l’esistenza di ciascuna delle due figure è funzione dell’esistenza dell’altra. Al momento della diagnosi i malati di cancro, i loro parenti e amici provano un senso di panico, disperazione e incertezza. Ciò si ripercuote su tutti gli aspetti della loro vita, soprattutto sui rapporti interpersonali e sul modo di vedere la propria condizione e il proprio futuro. D’altra parte maggiore è la gravità della malattia e maggiore è l’ansia che ne deriva. I malati di cancro abbandonano un mondo con il quale hanno dimestichezza e nel quale si sentono sicuri per entrare in un nuovo mondo fatto di ospedali, specialisti, terminologia medica, medicine e trattamenti. Se già con la diagnosi di tumore il paziente vede spesso modificato il suo ruolo, non essendo più attivo e dovendosi appoggiare agli altri, a questo si deve aggiungere la paura di interventi o di terapie e l'incognita di ciò che succederà dopo. Altre volte nel soggetto scatta un meccanismo psicologico di negazione della patologia, che serve ad allontanare l'ansia e la paura: "Hanno sbagliato, non è possibile". Ma questo atteggiamento è controproducente perché negare la realtà non modifica quanto è avvenuto, anzi espone al rischio di sottovalutare o addirittura di ignorare le terapie mettendo a repentaglio la propria vita. D’altra parte in un’era moderna qual è la nostra, in cui pur non volendo cercare ci si trova a contatto con informazioni, i pazienti tendono ad essere sempre più interessati a sapere. Spesso il soggetto che ha appreso la diagnosi, decide di non parlarne con i familiari "perché non voglio che mi vedano preoccupato, che stiano in ansia per me". Pertanto esclude l'argomento malattia dalle conversazioni evitando ogni riferimento al tumore e creando una falsa situazione in cui apparentemente non è successo nulla. A loro volta i familiari spesso confermano tale comportamento tacendo sia col paziente che con gli altri componenti della famiglia, al fine di evitare loro preoccupazioni. In tal modo si instaura un meccanismo perverso del tipo "io so che tu sai che io so", nel quale l'ombra del tumore è comunque presente, perché presenza fissa nella mente di tutti, anche se non verbalizzata. Questo atteggiamento è fortemente controproducente per diversi motivi. Innanzitutto perché impedisce a ognuno, e in particolare al paziente, di esprimere i propri sentimenti e i propri bisogni; in questo modo ogni persona coinvolta porta sulle spalle un peso enorme di emozioni, paure, angosce che è costretto a reggere da solo senza per questo alleviare il peso agli altri. Inoltre la comunicazione non verbale (espressa da atteggiamenti, gesti, mimica del viso) rimanda messaggi contrastanti rispetto alla comunicazione verbale, creando confusione all'interno del sistema familiare. La discrepanza tra comportamento verbale positivo e non verbale negativo può indurre il paziente a sentirsi abbandonato e non amato mentre il familiare potrà sentirsi frustrato e impotente nell'aiutare il malato. È pertanto importante capire che il non comunicare su quello che si sta verificando non aiuta nessuno: non pronunciare la parola "cancro" non lo fa sparire. Parlare di un problema, di qualsiasi natura esso sia, non solo permette di dare libera espressione alle emozioni, ma aiuta anche a dargli la giusta dimensione. Con l’obiettivo da un lato di gestire le emozioni, le paure, le ansie e le angoscie proprie della malattia e dall’altro di contribuire ad una migliore accettazione e sopportazione anche fisica della malattia e del suo trattamento, vari approcci terapeutici sono stati proposti. Tra questi annoveriamo la musicoterapia. Negli ultimi 10 anni sono stati pubblicati vari studi riguardanti l’applicazione della musicoterapia in campo oncologico. Essi hanno dimostrato che la musicoterapia può determinare una riduzione dei livelli di ansia e di stress, un miglior controllo del dolore, una migliore compliance ai trattamenti antiblastici e può fornire un supporto psicologico al pazienti e ai loro familiari. Il termine musicoterapia nasce nell’Antica Grecia e oggi indica il ricorso ad esperienze musicali attive, in cui s’impiega la musica per coltivare l’espressione creativa, o passive in cui predomina l’ascolto. Con il termine di musicoterapia si intende l’utilizzo della musica e degli elementi musicali (armonia, melodia, ritmo, timbro) per favorire l’integrazione fisica, psicologica ed emotiva dell’individuo. La musicoterapia è una disciplina che utilizza l’elemento sonoro/musicale all’interno della relazione utente/operatore in un processo sistemico di intervento con finalità preventive, riabilitative e terapeutiche. Come citato sopra, la musicoterapia viene applicata attraverso due metodologie: 1.musicoterapia ricettiva o passiva , con l’ascolto di musica registrata scelta dal paziente o programmata dal terapeuta; 2.musicoterapia attiva , in cui la musica è creata dal paziente attraverso strumenti musicali, suoni e rumori emessi dal paziente. Tra i possibili campi di applicazione della musicoterapia vi è l’oncologia con le seguenti finalità: •Riduzione di ansia e stress •Miglior controllo del dolore •Migliore compliance ai trattamenti •Supporto psicologico al paziente e ai familiari Già oltre 15 anni fa era stata evidenziata l’importanza della musicoterapia nel controllo del dolore oncologico e da allora varie esperienze sono state condotte in questo settore. Più recentemente, in uno studio condotto su pazienti in trattamento radioterapico, 42 pazienti sono stati randomizzati in un gruppo sperimentale (n=19) e in un gruppo di controllo (n=23). Il gruppo sperimentale ha ascoltato musica scelta direttamente dal paziente per tutto il periodo del trattamento, mentre il gruppo di controllo non ha ascoltato musica. Malgrado la mancanza di una differenzazione significativa tra il gruppo sperimentale e il gruppo di controllo lungo il periodo del trattamento radioterapeutico, l'intervento di musicoterapia ha mostrato effetti positivi per pazienti con elevati livelli d’ansia nella fase iniziale della radioterapia. In un’ulteriore esperienza condotta su pazienti oncologici, 33 pazienti sottoposti a chemioterapia ad alte dosi sono stati randomizzati in un gruppo di controllo sottoposto a protocollo antiemetico standard, e in un gruppo sperimentale sottoposto a protocollo antiemetico standard più intervento di musicoterapia effettuato durante le 48 ore di somministrazione del farmaco ciclofosfoammide ad alte dosi. Lo studio ha evidenziato una riduzione sia dei sintomi di nausea sia del numero di episodi di vomito a favore del gruppo sperimentale. Vari studi sono stati condotti, inoltre, sui pazienti oncologici nella fase avanzata della malattia, al fine di migliorare gli effetti delle terapie di supporto. In una recente esperienza realizzata in un centro oncologico svizzero, 251 pazienti nella fase avanzata di malattia neoplastica hanno ricevuto un approccio integrato con musicoterapia, psicoterapia ed assistenza spirituale che ha contribuito ad alleviare il dolore e a ridurre l’ansia e la disperazione, migliorando lo stato di speranza e serenità. Oltre alle esperienze sopracitate se ne possono annoverare molte altre, ma per lo più si tratta di studi condotti su piccoli gruppi di pazienti che necessitano ovviamente di ulteriori conferme. È indubbio, comunque, come sosteneva Oliver Sacks, che “il potere della musica di integrare e curare… è un elemento essenziale, è il più completo farmaco non chimico”. È ovvio che la musicoterapia non può sostituirsi alle terapie tradizionali per la cura delle neoplasie, ma può senz’altro potenzialmente offrire un valido supporto alle stesse. Bibliografia •Balint. Medico, paziente, malattia. 1957 •Brewer JF. Healing sounds.Complementary Therapy in Nurses and Midwifery 1998;4(1):7-12 •Bunt L. Music therapy: an art beyond words. Routledge 1994, England •Ezzone S., Baker C., Rosselet R.,Terepka E. Music as an adjunct to antiemetic therapy. Oncology Nursing Fo-rum 1998;25(9):1551-1556 •Janelli LM., Kanski G. Music for untying restrained patients.Journal of New York State Nurses Association 1998;29(1):13-15 •Kerkvliet GJ. Music therapy may help control cancer pain. J Natl Cancer Inst. 1990 Mar 7;82(5):350-2 •Lindsay S. Music in hospitals. British Journal of Hospital Medicine 1993;11:660-662 8. Magill-Levreault L. Music therapy in pain and symptom management. J Palliat Care. 1993 Winter;9(4):42-8. •McCaffrey R., Locsin RC. Music listening as a nursing intervention: a symphony of practice.Holistic Nursing Practice 2002;16(3):70-77 •Renz M, Schutt Mao M, Cerny T. Spirituality, psychotherapy and music in palliative cancer care: research pro-jects in psycho-oncology at an oncology center in Switzerland. Support Care Cancer 2005;13(12):961-6 •Smith M., Casey L., Johnson D., Gwede C., Riggin OZ. Music as a therapeutic intervention for anxiety in pa-tients receiving radiation therapy. Oncology Nursing Forum 2001;28(5):855-862 •White JM. Music as intervention: a notable endeavor to improve patient outcomes.Nurses Clinical North Ameri-can 2001;36(1):83-92

Canto e psichiatria

di R.Talmelli Probabilmente si tratta di un luogo comune di scarso valore scientifico, tuttavia pare che la correlazione fra disturbi psichiatrici e arte abbia radici molto antiche. Il dottor Fussi ha chiesto a me di occuparmi di questa relazione pur sapendo che non appartengo al mondo accademico, e le ragioni di questa scelta sono fondamentalmente due: l’esperienza clinica (mi occupo di psichiatria da una ventina d’anni) e l’esperienza musicale, essendo io stesso un cantante. In questa sede avrei potuto con un po’ di studio in più, parlare della personalità degli artisti, o degli studi freudiani sugli attori, e nel canto c’è tanta recitazione, oppure delle psicopatologie descritte in varie opere: il Disturbo Ossessivo Compulsivo di Lady Macbeth, i deliri allucinati di Lucia, la depressione di Filippo II, la scissione affettiva di Azucena. Ho preferito invece portare alcune considerazioni pratiche che possono avere risvolti molto concreti nella vita di ogni giorno di un cantante. L’osservatorio di uno psichiatra è sempre viziato dal fatto che non vede la popolazione in toto, ma quella che ha particolari disturbi, per cui le statistiche credo abbiano un valore molto relativo; nel mio caso personale, penso si debba considerare l’importante correttivo fornito dalla frequentazione, pur non molto assidua, del mondo musicale. ARTE E DISTURBI MENTALI Il professor Cassano afferma che «gli artisti in genere si distinguono per un tasso di affezioni dell’umore superiore al resto della popolazione». L’idea che questa associazione tra genialità e malattia esista continua tuttavia a suscitare scetticismo e resistenze, dettate soprattutto dalla mancata comprensione della natura degli stati maniaco-depressivi. Sono in molti, infatti, a non riconoscere le caratteristiche di tali disturbi, a partire dai tratti più lievi, temperamentali, che ne possono precedere l’insorgenza, o a non sapere che la maggior parte degli individui che ne soffre non va necessariamente incontro al deterioramento e alla destrutturazione della personalità. Un paziente con questo disturbo, quindi anche un soggetto dotato di talento artistico, alterna momenti in cui possono prevalere condotte stravaganti e bizzarre, o anche sintomi psicotici, come deliri e allucinazioni, a periodi di lucidità e di notevoli capacità creative. L’efficacia e l’espressività di alcune opere artistiche può talvolta dipendere proprio dall’interazione tra stati d’umore mutevoli e, insieme, dalla disciplina e dalla capacità di rielaborare proprie dei periodi di benessere psichico. Nell’interpretazione psicoanalitica veniva dato un eccessivo rilievo agli elementi irrazionali e intuitivi della creazione artistica. Tuttavia, il vero artista è senza dubbio colui che domina il proprio talento. Un soggetto dotato di talento produce opere d’arte grazie alla capacità di esprimere i propri vissuti anche se malato, non perché malato. Un’opera d’arte può, nello stesso tempo, avere la funzione di un “sintomo” e conservare il suo valore estetico autonomo. Il riscontro di una patologia affettiva in un artista non ne diminuisce la grandezza e l’individualità, dal momento che non è la malattia che sta all’origine della sua forza creativa. La possibilità che vi sia un legame tra genio artistico e follia è uno dei motivi persistenti della nostra cultura. Facendo un rapido excursus possiamo rintracciare innanzitutto una simbologia propria della mitilogia: Saturno incarna il principio di concentrazione e di inerzia, ed è il simbolo di ogni sorta di ostacolo, sfortuna e paralisi. Saturno è ritenuto responsabile delle varie rinunce e perdite che la vita ci impone, ma ha anche il compito di liberarci dalle catene della vita istintiva e delle passioni. Costituisce perciò la leva della vita intellettuale, morale e spirituale, mentre un eccessivo distacco da beni e sensazioni terreni degenera in pessimismo, nella melanconia, nel rifiuto della vita. Fin dall’antichità si ritiene che il “temperamento saturnino” sia proprio degli artisti, i quali sarebbero maggiormente inclini verso la melanconia e l’introversione. Per Aristotele la “disposizione naturale” necessaria al creare opere poetiche e alla genialità in genere si identifica nel temperamento melanconico: «Perché tutti gli uomini d’eccezione nel campo della filosofia, della politica, della poesia o delle arti sono melanconici, e alcuni a tal punto da essere colpiti dalle malattie che derivano dalla bile nera (in greco melanconia significa bile nera), come si narra che, fra gli eroi, sia avvenuto a Eracle?». Per Aristotele tra il genio e il folle non c’è differenza di natura, ma di grado. La follia è uno stato parossistico del temperamento conferito dalla bile nera. La melanconia conferisce quindi, a chi ne è colpito alcune qualità straordinarie; tuttavia il melanconico è anche un individuo fragile, in equilibrio prercario, bisognoso di cura: «Quelli che sono malinconici per natura hanno sempre bisogno di cura. Il loro corpo infatti, a causa del loro temperamento, viene continuamente corroso e sono sempre portati ad appetire violentemente. E, poiché il piacere caccia il dolore (…) per questo tali uomini divengono intemperanti e viziosi». Questo non vuol dire tuttavia che il genio sia un malato. Aristotele, infatti, ammette l’esistenza di uno stato di salute del melanconico e afferma che «gli eccessi che la bile determina fanno sì che tutti i melanconici si distinguano dagli altri uomini, non a causa di una malattia, ma a causa della loro natura originale». La novità di Aristotele è stata quella di attribuire la capacità di creare opere d’arte ad un particolare umore, correlando una concezione precisa dell’arte ad una precisa concezione fisiologica. Anche secondo alcuni esponenti della filosofia stoica la follia ha un’origine fisica, in relazione con il corpo. Nel Rinascimento si ebbe una ripresa d’interesse per l’argomento, e, sulla base del pensiero aristotelico, si introdusse una netta distinzione tra melanconici sani, capaci di grandi imprese, e individui impediti dalla malattia di realizzare le loro capacità. Nel Cinquecento le caratteristiche associate al temperamento melanconico, come l’irritabilità, l’instabilità dell’umore e l’eccentricità, vennero di moda, al punto che la loro esibizione acquistò un certo valore snobistico. Nelle Vite del Vasari anche gli artisti minori, modestamente dotati, furono messi nella categoria dei saturnini, mentre nei grandi maestri il legame con la melanconia era un fatto scontato. Parlando di Raffaello un contemporaneo riferisce che «li uomini di questa excellentia sentono tutti del melanconico»; e nella Scuola di Atene Raffaello a sua volta mostrava Michelangelo assorto in solitarie meditazioni nell’atteggiamento tradizionale della melanconia. Michelangelo stesso, che negli ultimi anni della sua vita affermava in un famoso sonetto «La mia allegrez’è la malinconia», racconta a Sebastiano Del Piombo, a proposito d’una cena: «ebbi grandissimo piacere, perché uscì un poco del mio malinconico, ovvero del mio pazzo». Nell’uso di questi termini compare un evidente riferimento alla filosofia classica; ed è probabile che molti artisti del Rinascimento giudicassero l’associazione tra “pazzia” platonica e “melanconia” aristotelica essenziale per la propria creatività. In epoca romantica si afferma l’idea che l’origine dell’arte sia da scorgere nella malattia: allora, infatti, l’impulso della filosofia idealista tedesca aveva portato alla scoperta dell’Io e, come conseguenza, all’esaltazione dell’irrazionale, alla fuga dalla realtà, e al compiacimento per la propria eccezionalità di sentire e di soffrire. Nel XIX secolo l’arte smise di adempiere a un compito pratico e l’artista, assieme alla sua funzione pubblica, perse anche la sua posizione sociale. La sua malattia divenne una forma di protesta contro l’ordine della società, un contrassegno del genio da preferire alla sanità dell’ideale borghese. Non senza compiacimento Heine diceva che «la poesia è una malattia dell’uomo, così come la perla è la malattia dell’ostrica». Un secolo dopo, quando la cultura del decadentismo recuperò molti degli atteggiamenti romantici, Proust affermava che «tutto ciò che è grande nel mondo lo dobbiamo ai nevrotici» e Mann che «la malattia è in certo qual modo degna di venerazione» poiché serve ad «affinare l’uomo, e renderlo intelligente ed eccezionale». Gli psicologi dell’Ottocento concentrarono la loro attenzione sulla psicologia del processo creativo. Lombroso, sulla base di ricerche statistiche che confrontavano artisti e malati di mente analizzando fattori ereditari, razziali e geografici, giunse alla conclusione che «V’hanno tra la fisiologia dell’uomo di genio e la patologia dell’alienato non pochi punti di coincidenza». Con questi autori le indagini sull’arte si erano spostate dal campo della riflessione filosofica a quello delle ricerche mediche e avevano fornito una base scientifica all’antica idea di un nesso tra genio e anormalità psichica. La psicologia tratteggiava la personalità artistica in un modo che offriva una spiegazione plausibile delle condotte stravaganti di tanti artisti dell’età romantica e delle epoche successive. Anche numerosi studiosi di arte e letteratura hanno affrontato il problema dei rapporti tra creatività e malattia psichica. Pelman, uno psicologo di inizio Novecento, in chiara contrapposizione con il pensiero della scuola di Lombroso e di una tradizione culturale antichissima, era convinto che «non uno dei geni maggiori fu malato di mente; e quando la pazzia venne davvero, le facoltà creative ne furono diminuite». Molti artisti sono infatti perfettamente normali dal punto di vista psichiatrico. Le controversie intorno al rapporto tra arte e malattia derivano dall’uso improprio del termine “follia”, attribuito quasi sempre a gravi patologie psichiatriche che sfociano in forme demenziali, certo inconciliabili con la creatività artistica. Molti individui che soffrono di disturbi dell’umore sono invece asintomatici per la maggior parte del tempo. Le manifestazioni psicotiche rappresentano solo un estremo del continuum maniaco-depressivo. Esistono inoltre degli aspetti temperamentali, che in alcuni casi appaiono come forme attenuate del disturbo, e possono favorire anch’essi le capacità creative. i soggetti con temperamento ipertimico e quelli in stato ipomaniacale sono animati da energie frenetiche e pronti all’entusiasmo, stabiliscono facili contatti con gli altri senza inibizioni e, in preda a un attivismo febbrile, possono produrre idee e associazioni secondo i meccanismi di traslazione semantica e logica che sono alla base del processo creativo. Anche l’acuirsi delle capacità percettive che si riscontra negli stati maniacali, come pure in alcuni stati indotti dall’uso di sostanze, può rappresentare – ovviamente in coloro che sono dotati di immaginazione artistica- il substrato necessario per la creazione di opere originali. La fase melanconica impone invece un ritmo più lento e consente di osservare con spirito nuovo pensieri e sentimenti sorti nei momenti di maggiore entusiasmo. Così la melanconia spesso induce a sentirsi insoddisfatti per i risultati conseguiti con il processo creativo e stimola una continua e talvolta ossessiva revisione critica. L’espressione artistica può quindi scaturire sia dalle esperienze di illuminazione, visionarie ed estatiche, simili all’aura delle forme epilettiche, sia da quelle dolorose e melanconiche o dalla combinazione dei due stati. Naturalmente i mutevoli livelli dell’umore non bastano da soli a “creare”, così come l’artista, per essere tale, non ha certo bisogno di attraversare gli stati estremi di tutte le esperienze, anche se la familiarità con la tristezza o con elevati livelli di energia può indubbiamente conferire una maggiore potenza alle creazioni d’arte. Non va tuttavia sottovalutato il fatto che la malattia maniaco-depressiva, o disturbo bipolare, è una patologia che può esprimersi secondo un continuum che va dagli aspetti temperamentali fino a gravi forme psicotiche. È inoltre un disturbo ricorrente, che tende di solito ad aggravarsi: se non interviene un trattamento, negli individui affetti possono ripetersi molti episodi di depressione e di mania, progressivamente più intensi e frequenti. Kraepelin ha descritto stati misti nei quali si osserva la concomitanza di dimensioni depressive e di valenze maniacali di esaltazione; tali stati sono probabilmente in relazione con l’espressione del talento artistico, ma sono strettamente collegati anche ai tratti più devastanti della malattia, rappresentati dall’abuso di sostanze e dal suicidio. L’utilizzo di determinate sostanze a scopo autoterapeutico dipende dalla sintomatologia predominante. I sedativi, tra i quali è possibile includere anche l’alcool, sono generalmente utilizzati nelle forme di depressione agitata, o negli stati maniacali o misti, caratterizzati da inquietudine, irrequietezza e insonnia. Il ricorso a sostanze stimolanti si spiega, invece, col bisogno di far persistere o intensificare gli effetti di uno stato ipomaniacale. In entrambi i casi si assiste ben presto allo sviluppo di tolleranza e dipendenza, al punto che secondo recenti stime circa il 60% dei pazienti bipolari ha una storia di abuso di alcool o di altre sostanze. Vi sono al riguardo innumerevoli testimonianze di artisti che hanno fatto ricorso all’uso di sostanze per risolvere dolorosi stati depressivi o l’ansia di prestazione, ignorando che questa abitudine comporta quasi sempre un peggioramento del decorso della malattia e contrasta gli effetti del trattamento medico. Ed è a questo punto che si possono inserire alcune considerazioni di carattere pratico: moltissimi cantanti proprio per quella sensibilità particolare che sembra connaturata negli artisti, avvertono il bisogno di moderare l’ansia che accompagna le loro prestazioni artistiche facendo ricorso a terapie molte volte auto prescritte. L’uso delle benzodiazepine è sicuramente il presidio più frequente. Mi sia consentita a questo punto una digressione su questa categoria di farmaci che a tutt’oggi sono i più venduti nel mondo e che, se certamente sono quasi privi di tossicità, tuttavia nel delicato equilibrio necessario per l’adeguata fonazione di un cantante, non sono prive di effetti collaterali che nel tempo possono diventare realmente drammatici. LE BENZODIAZEPINE Le benzodiazepine, introdotte negli anni ’60 nella pratica clinica, hanno rivoluzionato la terapia dei disturbi d’ansia. I primi farmaci utilizzati nella terapia del disturbo d’ansia generalizzata sono stati i barbiturici, composti che non avevano una specifica azione nel controllo dell’ansia, in realtà riducevano l’ansia in modo direttamente proporzionale alla loro capacità sedativa. Quando vennero introdotte le benzodiazepine, si osservò invece la prima reale azione ansiolitica; la riduzione dei sintomi d’ansia non era cioè confusa da uno stato di sedazione indotto. L’osservazione originale ottenuta nel 1960 dall’effetto ansiolitico del clordiazepossido (principio attivo del Librium) nell’uomo dimostrò che le benzodiazepine erano di gran lunga più efficaci dei barbiturici. Dopo la loro introduzione nella pratica clinica, le benzodiazepine si mostrarono delle molecole realmente rivoluzionarie, perché riducevano l’ansia ad un livello mai osservato prima e lo facevano senza i pericoli – alcuni dei quali letali – connessi con l’uso dei barbiturici. Questa maneggevolezza delle benzodiazepine, con la loro altissima utilità terapeutica su un vastissimo gruppo di disturbi clinici, associata ad un profilo di sicurezza sconosciuto fino a quel momento fece sì che le benzodiazepine diventassero tra i farmaci più prescritti al mondo. Negli anni 1975–77 si scoprì che le benzodiazepine agiscono selettivamente a livello delle sinapsi GABAergiche facilitando l’azione dell’acido gammaaminobutirrico (GABA). La scoperta del meccanismo GABAergico è stata seguita a breve distanza di tempo da un’altra importante evidenza: nel cervello dei mammiferi, uomo compreso, sono presenti siti di legame specifici per le benzodiazepine, i quali sono diversi da quelli del GABA. Da allora la storia di questi farmaci straordinari non si è più fermata ed è stata costellata da altre straordinarie e affascinanti scoperte associate all’uso terapeutico e soprattutto alla comprensione dei meccanismi biologici che modulano i processi emozionali. Fino ad oggi sono state sintetizzate circa 500 benzodiazepine, una trentina delle quali sono farmaci prescritti dai medici di tutto il mondo che, insieme alle più recenti molecole non benzodiazepiniche, rappresentano la terapia d’elezione dei disturbi del sonno e di alcune forme di epilessia. Al contrario, questi farmaci oggi non sono più considerati i farmaci d’elezione per la terapia a lungo termine dei disturbi d’ansia. Essi rimangono invece il mezzo terapeutico più efficace per antagonizzare o prevenire le crisi d’ansia acuta e le manifestazioni da stress acuto o subacuto. L’evidenza che differenti sottotipi di recettore GABAa mediano selettivamente gli effetti sedativo, ansiolitico e amnesico delle benzodiazepine ha permesso di dimostrare che le benzodiazepine si legano ai vari sottotipi recettoriali GABAa con la stessa affinità e sono prive di selettività. Importanti differenze tra le benzodiazepine sono quelle relative alle loro caratteristiche farmacocinetiche. Assorbimento, distribuzione, metabolismo ed eliminazione sono caratteristiche di rilevante importanza clinica: Molte benzodiazepine vengono metabolizzate a livello epatico dagli enzimi microsomiali P450, in particolare dal CYP2 C19 e CYP3A4 attraverso la conversione in uno o più metaboliti, alcuni dei quali sono farmacologicamente attivi. In base all’emivita, cioè il tempo necessario perché la concentrazione plasmatica del farmaco si dimezzi, le benzodiazepine si possono classificare in molecole a: a) breve durata d’azione (t ½ < 8 ore) (triazolam, midazolam, t ½ = 2 – 4 ore) b) durata d’azione intermedia (t ½ = 8 – 24 ore) (lorazepam, t ½ = 14 ore; alprazolam t ½ = 12 ore). Per la loro durata più prolungata queste benzodiazepine sono in grado di garantire un effetto ansiolitico e un effetto ipnotico in soggetti con risvegli mattutini precoci; c) lunga durata d’azione (t ½ > 24 ore) e spesso con metaboliti attivi a lunga emivita (Diazepam t ½ = 20 – 60 ore). L’efficacia nel ridurre o eliminare i principali sintomi dei disturbi d’ansia e la quasi totale assenza di effetti collaterali a livello cardiocircolatorio, renale ed epatico hanno determinato negli ultimi quarant’anni lo straordinario successo clinico delle benzodiazepine. La loro grande maneggevolezza ha anche portato a trascurare per moltissimi anni la capacità delle benzodiazepine di indurre tolleranza ad alcuni dei suoi più importanti effetti, e soprattutto dipendenza sia fisica che psicologica. Sintomi e segni dell’astinenza da benzodiazepine Iperattività del sistema nervoso autonomo (per es. sudorazione o frequenza cardiaca maggiore di 100) Aumento del tremore alle mani Insonnia Nausea e vomito Allucinazioni o illusioni transitorie visive, tattili o uditive Agitazione psicomotoria Ansia Crisi di grande male Effetti collaterali nell’uso prolungato di benzodiazepine Nell’uso prolungato, le benzodiazepine creano fenomeni di tolleranza e dipendenza, oltrechè alterazione delle funzioni motorie e cognitive: a) Tolleranza e dipendenza La tolleranza farmacologica si manifesta clinicamente con la progressiva riduzione degli effetti terapeutici del farmaco ad un dato dosaggio; ciò determina la necessità di aumentare la dose per mantenere l’effetto ipnotico desiderato. Tuttavia, se è ampiamente documentato che i principali parametri polisonnografi del sonno (latenza, percentuale di stadio 3-4 risvegli infrasonno) ritornano ai valori basali dopo alcune settimane di trattamento, in realtà l’incidenza di questo problema con gli ipnotici è abbastanza ridotta ed è simile a quella degli ansiolitici e degli antidepressivi, apparendo legata più che ai farmaci alla personalità di chi li assume. Secondo uno studio condotto negli Stati Uniti, la percentuale di chi ha ritenuto la dose di ipnotici assunta insufficiente e l’ha spontaneamente aumentata è risultata dell’8%, contro un 5% relativo a coloro che assumevano ansiolitici e tranquillanti. È inoltre probabile che la valutazione soggettiva dell’efficacia di un farmaco dipenda solo in parte dai parametri polisonnografi, e che la tolleranza per gli altri aspetti dell’azione terapeutica si sviluppi più lentamente o comunque in modo meno rilevante. Il problema della dipendenza dall’ipnotico è invece relativamente più frequente e si verifica quando il paziente tende a continuare ad assumere cronicamente il farmaco; ciò avviene per paura che ricompaia l’insonnia o perché al tentativo di sospensione si manifesta un peggioramento della qualità del sonno, che induce il soggetto a riassumere subito l’ipnotico. b) Alterazione delle funzioni cognitive Nei compiti mnemonici le benzodiazepine interferiscono con i processi di consolidamento della memoria semantica (verbale) mentre la memoria a lungo termine è meno disturbata. Un individuo che abbia assunto una benzodiazepina può ricordare delle nozioni apprese prima della somministrazione ma non immediatamente dopo. Periodi di amnesia globale transitoria sono stati descritti dopo l’impiego di alte dosi di benzodiazepine e soprattutto in concomitanza con bevande alcoliche. Questo tipo di problema con il triazolam, molecola ad altissima affinità e di grande attività intrinseca, ha richiesto una rivalutazione del suo rapporto rischi/benefici. Problemi di memoria nell’anziano che assume benzodiazepine pongono difficoltà di diagnosi differenziale con demenza (pseudo-demenza). Gli ipnotici dunque possono provocare una riduzione delle capacità di apprendere e ricordare, con disturbi della memoria anterograda. Tale effetto è correlato con l’effetto sedativo dei farmaci e compare con tutti gli ipnotici, benzodiazepinici e non, ed è massimo nel momento di massima concentrazione plasmatica; a causa della grande disomogeneità delle ricerche sperimentali, non vi sono dati sufficienti per spiegare completamente il fenomeno né per attribuire un maggiore effetto amnesico ad un determinato farmaco. La durata del periodo in cui la capacità di apprendere e ricordare è ridotta, è equivalente alla durata d’azione dell’ipnotico stesso e per i farmaci ad emivita breve si esaurisce in genere quindi entro le 8 ore dalla somministrazione. Gli anziani cronicamente sedati possono diventare sempre più confusi, aggressivi e agitati. Poiché la sedazione può attivare od esacerbare i sintomi della demenza, non è insolito osservare soggetti anziani portatori di lieve deficit mnesico che con l’assunzione di BDZ presentano alterazioni della memoria sempre più gravi. Quando le BDZ vengono sospese, si può talora osservare un miglioramento significativo della funzione mnesica. c) Alterazione delle funzioni motorie L’utilizzo di BDZ specialmente nell’anziano può determinare lo sviluppo di una tossicità cerebellare, che si manifesta con atassia, disartria e incoordinazione, determinando una maggiore disabilità in una popolazione che già frequentemente è affetta da tremori o difficoltà di coordinazione. Tale alterazione peculiare dell’equilibrio può ulteriormente contribuire a cadute e fratture su base ipossica ed ipotonica muscolare. Il termine ipotonia riferito alla diminuzione di resistenza che i muscoli offrono alla palpazione e alla manipolazione passiva (di solito estensione di un arto), è imputabile ad una riduzione di attività dei motoneuroni mediata dai recettori delle benzodiazepine (per lo più di tipo Alfa 2). In questo contesto non va inoltre sottovalutato l’effetto miorilassante esercitato da tutte le benzodiazepine, specialmente da quelle ad emivita media e lunga, utilizzate principalmente per il loro effetto ansiolitico. Se questo effetto risulta benefico per cefalee muscolotensive e altre situazioni di contrazione muscolare dolorosa, non si può dire altrettanto per quanto riguarda l’apparato fonatorio, dove una anche minima alterazione del tono muscolare si traduce immediatamente in una emissione forzata dei suoni, legata al minor “sostegno” fornito dalla muscolatura stessa. d) Altri effetti collaterali Altri effetti collaterali da benzodiazepine sono meno comuni. Tra essi l’effetto paradosso che può rappresentare un serio problema nella gestione della terapia. Il paziente può divenire più ansioso, avere degli attacchi di panico isolati o ripetuti e peggiorare, e non migliorare, i suoi disturbi del sonno. Altri sintomi sono l’irascibilità, l’irritabilità o l’aggressività esagerata sino all’agitazione psicomotoria con o senza comportamenti antisociali, o disinibizione e promiscuità sessuale (in particolare dopo assunzione contemporanea di alcolici). In alcuni casi le benzodiazepine producono depressione clinica indistinguibile da quella endogena. In tutti questi casi è indicato ridurre o sospendere le benzodiazepine ed instaurare una terapia a base di neurolettici o antiepilettici quali il valproato di sodio e la carbamazepina. Altri effetti collaterali riscontrabili nella pratica clinica sono le eruzioni ed i rash cutanei, aumento ponderale, disturbi della sfera sessuale (amenorrea, calo della libido, impotenza, anorgasmia) e, raramente, alterazioni della crasi ematica. ANSIA ACUTA E CRONICA: ASPETTI NEUROBIOLOGICI E TERAPIA I modelli sperimentali cellulari e animali hanno dimostrato che a livello cellulare una crisi d’ansia acuta o un evento stressante acuto si traducono in una rapidissima riduzione nella funzione delle sinapsi GABAergiche e in una parallela riduzione della soglia di eccitabilità e quindi aumentata sensibilità allo stress dei neuroni noradrenergici, serotoninergici e dopaminergici soprattutto a livello delle aree frontocorticale e limbica. L’evidenza anatomica e immunocitochimica che i recettori GABAa sono presenti sui dendriti e sul soma dei sopraccitati neuroni facilita la comprensione del perché, riducendosi la funzione inibitoria, si riduce anche la soglia di eccitabilità dei sopraccitati neuroni. Numerosi autori hanno infatti dimostrato che differenti tipi di stress acuto si traducono in immediata riduzione funzionale dei recettori GABAa e conseguente rapido aumentato “release” di monoamine a livello sinaptico. Nello stress cronico persiste la riduzione funzionale GABAenergica ma, al contrario dello stress acuto, si ha una progressiva riduzione dell’attività basale dei neuroni monoaminergici con ridotta liberazione sinaptica di monoamine. Questo effetto è anche associato ad una più elevata sensibilità di questi neuroni a stimoli stressanti o comunque negativi. Queste ricerche neurobiologiche hanno dimostrato che la riduzione della soglia di eccitabilità di specifiche popolazioni di neuroni, tra i quali quelli monoaminergici, costituisce uno degli eventi funzionali più importanti sia nella risposta fisiologica che patologica ad un evento stressante acuto o cronico. La conoscenza di questi eventi neurobiologici renderà più facile la comprensione degli effetti positivi e negativi del trattamento acuto o a lungo termine dei disturbi d’ansia con le benzodiazepine. È noto da tempo che l’attivazione dei neuroni monoaminergici in seguito ad uno stress acuto può essere ridotta o completamente antagonizzata dalla preventiva somministrazione di una singola dose di benzodiazepine. La facilitazione dell’azione del GABA sul proprio recettore GABAa, localizzato sul soma e sui dendriti dei neuroni monoaminergici, si traduce in una iperpolarizzazione della membrana con conseguente innalzamento della soglia di eccitabilità del neurone il quale risulta meno sensibile e quindi protetto dall’azione negativa dello stress. Il grado di ridotta sensibilità neuronale dipende dalla efficacia della benzodiazepina (agonista parziale, agonista completo) e persiste per un tempo proporzionale alla farmacocinetica e biodisponibilità della molecola. Pertanto con la riduzione dei livelli plasmatici delle benzodiazepine il neurone riacquista completamente le sue primitive proprietà senza avere deficit funzionali residui. Si comprende quindi che la possibilità di usufruire di formulazioni tali da portare in tempi brevissimi ad una buona biodisponibilità della benzodiazepina diventa elemento cruciale per permettere al farmaco di esercitare il suo straordinario potenziale terapeutico e poter essere considerato il trattamento d’elezione per la patologia acuta nonché un trattamento di enorme utilità quando venga associato nel periodo iniziale di una terapia a lungo termine con antidepressivi. Un fenomeno notevolmente differente si manifesta durante un trattamento prolungato di mesi o anni con benzodiazepine. Questo tipo di trattamento dal punto di vista clinico si traduce nello sviluppo di tolleranza e dipendenza fisica. Alla base di questi due fenomeni vi è una riduzione della soglia di eccitabilità cellulare che deriva da modificazioni funzionali che avvengono sia a livello del recettore GABAa, dove si verifica una ridotta attività del sistema di traduzione o ionoforo allo ione cloro, sia a livello genomico. Infatti, recentissime evidenze molecolari hanno dimostrato che un trattamento cronico con benzodiazepine così come la sua brusca sospensione comportano modificazioni nell’espressione genica e la sintesi di nuovi recettori GABAa con una differente (ridotta) sensibilità al GABA e alle benzodiazepine. In particolare, durante l’astinenza la cellula esprime recettori GABAa nei quali sono presenti subunità che rendono questi recettori completamente insensibili all’azione modulatoria delle benzodiazepine e molto più sensibili alle molecole ansiogene, proconvulsivanti e convulsivanti. Il fenomeno di ridotta soglia di eccitabilità cellulare, che si manifesta con differente intensità e gravità nei pazienti trattati cronicamente con questi farmaci, è influenzato dalla differente sensibilità individuale e presumibilmente dovuta a fattori di vulnerabilità genetica nonché dal dosaggio e dalla durata del trattamento. La sintesi di nuovi recettori meno sensibili alle benzodiazepine e più sensibili a ligandi ansiogeni e proconvulsivanti si traduce in una ridotta soglia di eccitabilità delle cellule. Paradossalmente questo effetto risulta essere simile alla ipereccitabilità cellulare indotta da uno stress cronico. Nel loro insieme tutte queste evidenze neurobiologiche rafforzano l’evidenza clinica della ridotta idoneità dell’uso di questi farmaci nella terapia a lungo termine dei disturbi d’ansia e che il trattamento cronico con benzodiazepine non costituisce più la terapia d’elezione nei disturbi d’ansia cronica. GLI ANTIDEPRESSIVI Farmaci antidepressivi di introduzione relativamente recente, come gli inibitori del reuptake della serotonina (SSRI) e della noradrenalina (SRNI) hanno consentito un approccio sicuramente più efficace alla terapia dei disturbi dell’umore e dei disturbi d’ansia. Dotati di grande efficacia e presentando effetti collaterali assolutamente modesti, al momento risultano essere i farmaci più indicati e meno pericolosi. Trattandosi di sostanze prescritte quasi esclusivamente dagli specialisti, non ritengo opportuno addentrarmi nella loro descrizione visto che, a differenza delle BDZ, il loro abuso pare un fenomeno ancora lontano. Mi limito a segnalare gli studi (3, 27, 28) sull’effetto neurotrofico che tali sostanze esercitano sui nostri neuroni. Fattori stressanti cronici, come pure l’uso di cortisonici inducono un progressivo depauperamento dei neuroni dell’ippocampo con conseguente peggioramento dei disturbi dell’umore. L’uso prolungato degli antidepressivi è in grado di ripristinare il trofismo neuronale e di conseguenza la funzionalità. CONCLUSIONI Molti cantanti si trovano nella situazione di dover affrontare disturbi d’ansia e dell’umore. Probabilmente meccanismi di mercato, e comunque non legati all’arte, richiedono ritmi di lavoro sempre più stressanti e con tempi di recupero insufficienti. In queste condizioni modeste patologie ansioso depressive possono andare incontro a significativi aggravamenti. Osservazioni sia cliniche che precliniche concordano sul fatto che l’uso prolungato delle benzodiazepine comporta tolleranza ai loro effetti terapeutici e dipendenza fisica (e forse anche psichica, come suggerito da osservazioni in soggetti che assumono benzodiazepine per uso ricreazionale, spesso associate ad altre sostanze d’abuso) che si manifesta con sintomi di astinenza alla repentina cessazione dell’assunzione. Oggi per fortuna le drammatiche conseguenze che comporta il decorso cronico dei disturbi dell’umore, sono limitate dall’utilizzo di adeguati presidi terapeutici. Attualmente sono, infatti, disponibili trattamenti molto efficaci. La terapia con i regolatori del tono dell’umore – sali di litio e, più recentemente, anticonvulsivi come la carbamazepina e il valproato, e negli ultimi anni i neurolettici atipici - ha modificato il decorso e radicalmente ridotto le conseguenze dei disturbi bipolari, permettendo alla maggior parte dei pazienti di svolgere una vita normale. Un’ampia varietà di antidepressivi si è inoltre dimostrata efficace nel trattamento delle gravi forme di depressione. Anche la psicoterapia, se unita al trattamento medico, è spesso utile, soprattutto per permettere un’adeguata conoscenza della malattia e dei rischi che essa comporta, per favorire il rispetto delle prescrizioni farmacologiche, e per prevenire possibili ricadute. Il ricorso a questi interventi terapeutici è chiaramente subordinato a una scelta individuale, ma dipende anche da un’adeguata informazione, vale a dire un’informazione che vada di pari passo con il progresso medico scientifico in questo settore. I processi neurochimici responsabili dei mutamenti cognitivi che si verificano negli stati patologici come in quelli creativi e le aree anatomiche implicate sono a tutt’oggi scarsamente conosciuti. Anche in questo settore il progresso è comunque rapido e continuo. Spetterà alla biologia molecolare, alla neuropsicologia e alle tecniche di neuroimaging, che hanno consentito negli ultimi anni di penetrare con una profondità senza precedenti molti aspetti delle funzioni cerebrali, fornire gli elementi per una maggiore comprensione dei mutamenti del pensiero e del comportamento che possono essere influenzati da mutevoli stati d’umore. Tenendo conto dell’ampia varietà dei disturbi dell’umore possiamo renderci bene conto che molti disturbi rientrano in tali patologie. Individuarle per tempo e quindi instaurare una adeguata terapia oltre ad impedire l’aggravamento del quadro clinico, può significare una vera guarigione. Una corretta terapia farmacologica si impone maggiormrnte nel caso di disturbi depressivi di tipo bipolare per i quali il suicidio rimane la complicanza più grave, ed esiste un lungo elenco di artisti che sono morti suicidi o che hanno effettuato tentativi autolesivi. BIBLIOGRAFIA 1. Ancil RJ, Embury GD, MacEwan GW – 1987 – Lorazepam in the elderly-A retrospective study of the side-effects in 20 patients. J Psycopharmacol 2: 126-127 2. Balter MB, Uhlenhuth EH – 1992 – New epidemiological findings about insomnia and its treatment. J Clin Psychiatry 53- Suppl 12- : S34- S42 3. Barclay L – 2003 – Antidepressant may protect against hippocampal volume loss. Am J Psychiatry 160(6): 1516-1518 4. 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Affinchè foniatri, logopedisti e maestri di canto lirici e moderni possano dialogare e trovare appoggio nelle reciproche competenze per un lavoro comune e a 360° sul cantante, ed insieme servire l'Arte vocale. Seguici su Facebook Seguici su Twitter Visita il nostro canale You Tube Contattaci via e-mail Rassegna Stampa Links Artistici Link Scientifici Dove alloggiare a Ravenna Copyright © 2013 - Franco Fussi NEWSLETTER Nome*: Cognome*:

lunedì 14 luglio 2014

Musica e religione

Musica e religione: un esperienza con un nuovo coro 14 Luglio 2014 Da circa 3 settimane ho iniziato una nuova esperienza musicale con un coro da chiesa, si tratta di un gruppo misto di ragazze e ragazzi di età, genere e nazionalità diversa, in chiave multietnica. Mi ero occupata molti anni di fa di un coro del genere di cui facevo parte anch'io quando vivevo in Sicilia, per molti anni oltre a cantare i salmi, cantavo ai matrimoni e ho anche suonato l'organo. In questa esperienza ho trovato tante cose nuove sia dal punto di vista dei brani sia per come vengono interpretati, per quanto riguarda l'aspetto della fede anche il mio coro era spirituale ed intenso e per me era un momento di comunione con Dio. I ragazzi che cantano e i musicisti sono stimolati al di là della passione, della tecnica anche se ovviamente sono interessati a migliorare anche in quello. Cantano per la Parola, per Dio e lo fanno con una gioia immensa, questo è visibile dai loro volti, dall'intensità con cui battono le mani nel suo nome, dalla forza con cui si esprimono i musicisti. Un pomeriggio in cui si stava provando un brano nuovo una ragazza si è posizionata al centro del palco per dare il tempo con le mani in una strofa in cui gli strumenti non suonano, quindi lei guidava le voci; ad un tratto ho guardato il suo viso e lei stava con il volto in sù, in totale adorazione; subito dopo ho notato che anche altri ragazzi erano nello stesso stato e cioè totalmente assorti in quello che stavano facendo, felici nel canto ma per un obiettivo più grande. Chi canta può ovviamente farlo per motivi personali, dalla passione a voler tentare una vera e propria attività lavorativa; questo gruppo è invece un setting totalmente diverso, con obiettivi legati alla loro fede; io mi sento felice di poterli sostenere con la tecnica e di poter dare loro qualcosa anche se sento che loro mi stanno dando la loro fiducia e il loro affetto. Cantare è proprio di chi ama. La voce di questo cantore è il fervore di un santo amore. (Serm. 336, 1) Sant'Agostino Dott.ssa Giuliana Galante

venerdì 30 maggio 2014

DSA: Disgrafia e non solo

Relazione: I D.S.A Autore: Berninger, Virginia W. O'Malley May, Maggie Fonte: Journal of Learning Disabilities; 3/1/2011, Vol. 44 Issue 2, p167-183, 17p Tipo documento: Articolo L'università di Washington, Seattle, ha approfondito la ricerca sui disturbi specifici dell'apprendimento in chiave multidisciplinare e programmatica , indagando sulle convergenze genetiche e comportamentali, sia per quanto riguarda la Disgrafia e la Disortografia, la Dislessia e le difficoltà dell'apprendimento orale e scritto, in cui si riscontrano elementi della dislessia, più difficoltà legate a codifica e comprensione. Altre forme di D.S.A. sono la Discalculia o disturbo del calcolo. Secondo le attuali ricerche le cause hanno un origine neurobiologica e si presentano come un atipia dello sviluppo in cui con le dovute strategie è possibile sostenere e modificare positivamente il quadro clinico. I casi studiati hanno dimostrato che le diagnosi possono essere diverse, ogni persona può rispondere al trattamento se adatto e se risponde a esigenze specifiche. E' importante tenere in considerazione elementi genetici e fenotipici nel pianificare e valutare le strategie d'intervento soprattutto nel contesto scolastico quando uno studente non risponde. Riconoscere che l'insegnamento può essere personalizzato ad ogni livello scolastico e una opportunità per ogni studente, non bisogna sottovalutare che i ragazzi e i bambini con disturbi relativi all'apprendimento sono vulnerabili, e le loro difficoltà aumentano da un anno scolastico all'altro a causa della complessità della scuola da un grado a quello successivo. Caratteristiche generali: Prima di parlare dei D.S.A. bisogna sempre pensare che tali disturbi riguardano persone con differenze individuali, diversi livelli di competenza, ad esempio non tutti i dislessici sono uguali Spesso, nei bambini dislessici l'’acquisizione delle abilità connesse alle prime fasi dello sviluppo è stata più lenta rispetto alla media (ad esempio camminare, parlare etc…), si parla dunque della presenza di “Fattori di rischio (ritardo/disturbo di linguaggio, non gattona mento, ritardo motorio, mancinismo, ecc.). I bambini con D.S.A. hanno problemi con la memoria a breve termine mentre, generalmente, hanno un’eccellente memoria a lungo termine. Hanno problemi di memoria con l’informazione strutturata in sequenza come ad esempio imparare i giorni della settimana, i mesi dell’anno, le note musicali, le tabelline o l’alfabeto. Pensano principalmente per immagini. Spesso hanno difficoltà a ricordare la loro data di nascita, il Natale o le stagioni. Spesso confondono la destra con la sinistra e non hanno una buona percezione del tempo che scorre con la conseguente possibilità di avere difficoltà nell’organizzazione e nell’essere puntuale. La lettura dell’orologio può non essere acquisita o risultare difficile. Si possono riscontrare difficoltà motorie fini, come allacciarsi le scarpe o i bottoni; Il modo in cui tengono in mano la penna, solitamente ma non sempre, è inconsueto. Possono essere ambidestri. Appaiono non coordinati e goffi nei movimenti. Non amano molto disegnare e soprattutto non amano assolutamente colorare. Hanno notevoli difficoltà a mantenere l’attenzione e la concentrazione; durante le prove orali, nelle materie precedentemente studiate a casa, solitamente non hanno difficoltà (se non si presenta una difficoltà di linguaggio), ma ottengono scarsi risultati nelle prove scritte. Nelle rielaborazioni spontanee hanno notevoli difficoltà nello strutturare un discorso che abbia un senso e la giusta successione dei tempi. Difficoltà nella lettura e nei calcoli: I bambini dislessici apprendono rapidamente attraverso l’osservazione, la dimostrazione,la sperimentazione e gli stimoli visivi. Sono molto vivaci e tendono ad evidenziare ciò che sanno fare bene per sopperire alla mancanza di ciò che a loro risulta difficile ottenere. La lettura può apparire molto lenta e/o molto scorretta. Al contrario possono avere una ragionevole rapidità di lettura ma senza una buona comprensione. I bambini con D.S.A. non leggono in modo fluente. Sono lenti a scrivere, in modo particolare quando devono copiare dalla lavagna, commettono errori, saltano parole e righe, non utilizzano armoniosamente lo spazio del foglio. Molti scrivono con caratteri troppo grandi e/o troppo piccoli e preferiscono ( e devono!!) scrivere in stampato maiuscolo. Possono avere difficoltà ad utilizzare il vocabolario, a memorizzare termini difficili e specifici delle varie discipline, ricordare gli elementi geografici o collocare in modo corretto l’ordine temporale degli eventi storici. Il loro lessico spesso è povero, possono avere difficoltà nell’espressione verbale del pensiero; nel riconoscere le caratteristiche morfologiche della lingua italiana. Tutti i bambini con D.S.A. hanno difficoltà nell’apprendere le lingue straniere e in particolare nella loro espressione scritta. La non corrispondenza dei grafemi rende molto difficile la memorizzazione dei termini. I maggiori problemi si evidenziano nell’apprendimento della lingua inglese a causa delle differenze tra la scrittura e la pronuncia delle lettere. Molti bambini con D.S.A hanno difficoltà a fare i calcoli in automatico, ad eseguire numerazioni regressive e le procedure delle operazioni aritmetiche (incolonnamento, riporto, ecc. a causa della difficoltà nella gestione dello spazio sul foglio). Nel disturbo del calcolo possono essere compromesse diverse capacità, incluse quelle “linguistiche” (per esempio comprendere o nominare i termini, le operazioni o i concetti matematici, decodificare i problemi scritti in simboli matematici), quelle “percettive” (per esempio riconoscere o leggere simboli numerici o segni aritmetici raggruppare oggetti in gruppi), quelle “attentive” (per esempio copiare correttamente i numeri o figure, ricordarsi di aggiungere il riporto e rispettare i segni operazionali), “matematiche” (per esempio seguire sequenze di passaggi matematici, contare oggetti e imparare le tabelline). I bambini D.S.A. possono presentare una sola caratteristica o più caratteristiche (o tutte) contemporaneamente, inoltre la “alterazione” delle abilità dipende molto anche dall’entità della caratteristica presentata. E’ importante che in presenza di molti aspetti come quelli sopraelencati si intervenga tempestivamente sul bambino cercando di far eseguire una diagnosi che potrebbe fugare ogni dubbio attuando la possibilità di mettere in atto immediatamente tutti gli accorgimenti necessari. Un bambino D.S.A. non riconosciuto può avere gravi problemi in termini di autostima. Non di rado, infatti, si giunge tardivamente ad una diagnosi di D.S.A. perché ci si sofferma a cercare la causa dei problemi psicologici riscontrati nel bambino. Il rifiuto per tutto ciò che riguarda la scuola, la mancanza di interesse, i frequenti “mal di pancia” mattutini, la chiusura in se stessi, l’aggressività o al contrario l’apatia, la sensazione di inadeguatezza, l’ansia esagerata, la frustrazione nell’incapacità continua di eseguire i compiti richiesti, sono i sintomi più evidenti che dovrebbero portare la famiglia ad interpellare uno psicologo, il quale, nella maggior parte dei casi riscontra l’origine proprio nel mancato riconoscimento di D.S.A. Dislessia e Disgrafia: Difficoltà comuni Informazioni: Autore: Mather, David S. Fonte: Journal of Learning Disabilities; Jul/Aug2003, Vol. 36 Issue 4, p307, 11p, 1 Diagram, 1 Graph Tipo documento: Articolo Pubblicazione: Sage Publications Inc. Dopo studi condotti da Mather, David S., pubblicati su Journal of Learning Disabilities ( Jul/Aug2003, Vol. 36 Issue 4, p307, 11p, 1 Diagram, 1 Graph) sono emersi aspetti comuni nel funzionamento cerebrale dei giovani adolescenti con Dislessia e Disgrafia, gli individui condividono una limitazione nei processi dell'emisfero sinistro che non compromette solo il linguaggio scritto. E' possibile che questa limitazione sia dovuta a un'alterazione del meccanismo di scanning relativo alle strutture spaziali-temporali, dunque i bambini in questione manifestano difficoltà nell'apprendere la lingua scritta a causa della dominanza dell'emisfero sinistro. Durante lo studio condotto, i gruppi indagati erano composti da buoni lettori/ basso livello di ortografia, basso livello di lettura / basso livello di ortografia, buoni lettori /buon livello di ortografia. Procedure Dual-task time-sharing sono state utilizzate per inferire lateralizzazione cerebrale durante attività verbali e non verbali. Di solito si utilizzano le procedure di tapping con una mano durante performance verbali o di tipo spaziale: lettura di un testo non familiare o risoluzione di un problema non verbale (disegni). La difficoltà del tapping indica che l’emisfero opposto è coinvolto in entrambi i compiti. In questo studio è stato utilizzato il paradigma dual task, i ragazzi con un livello basso di ortografia e lettura hanno raggiunto risultati inferiori e simili tra loro. Da questi risultati è emerso che le persone con dislessia e disgrafia mostrano una limitazione di elaborazione nell'emisfero sinistro, che non si limita alla lingua scritta; questa limitazione è dovuta alla mancanza di un meccanismo di scansione per la conversione di matrici spaziali (ad esempio , i modelli di ortografia ) a forma temporale. L’ipotesi è che i nostri due emisferi lavorino in maniera asimmetrica e che la mancanza di questa asimmetria sia alla base della dislessia. Dall’indagine è emerso come nei soggetti dislessici ci sia una maggiore prestazione nella visione laterale di campo destro rispetto a quello sinistro; un training di addestramento produce un miglioramento della lettura e nella scrittura con la riduzione di questa differenza tra destra e sinistra. Denckla ( 1985) ha osservato che bambini di 6 - 8 anni di età a rischio di dislessia hanno avuto difficoltà a svolgere un compito con la mano sinistra, in risposta a un comando verbale - una constatazione indicativa. Indagare sulla scansione laterale del cervello è importante perché fornisce una spiegazione del perché alcuni individui quando iniziano a leggere hanno grande difficoltà di apprendimento per acquisire in modo coerente la lettura ( McGuinness , 1997) da sinistra a destra . Anche se sembra che la direzionalità degli emisferi sia addestrabile (Clay , 1972 , 1985) , per i bambini RH- dominanti l'emisfero è in grado di imparare verso destra ( Aschoff , 1974 ) . Questa possibilità è compatibile con la prova che bambini dai 5 ai 7 anni, età in cui la lettura è normalmente appresa , manifestino già a questa età un ritardo di maturazione ( Fletcher & Satz , 1980; Jansky , 1978; Satz , Taylor , Friel , e Fletcher , 1978 ) . Prima di concludere , è importante prendere atto che lo sviluppo di una scansione o una funzione destra dominante và inserita in un contesto più ampio . Come potrebbe essere anticipato dall'analisi finora, la ricerca con gli scolari , ( non scolarizzati ) adulti , e le persone colte in età adulta, ha dimostrato che la funziona dominante non si sviluppa spontaneamente, ma piuttosto dipende dall'istruzione o dall'esperienza di solito acquisite nella scuola primaria ( Kolinsky , Morais , Contento , e Cary , 1987; . Kolinsky et al , 1990) . Tuttavia, ci sono alcune evidenze che suggeriscono che si sviluppa anche in individui non scolarizzati come i marinai. Lo studio in questione ha dimostrato che la dislessia la disgrafia sono disturbi specifici che differiscono dal controllo nel non essere abili a mantenere performance di tapping con la mano destra rispetto alla conoscenza dell’orientamento spaziale delle linee. Le difficoltà relative al tapping con la mano sinistra sono state osservate e riconosciute in quanto la differenza riguarda i processi LH , sono molti oggi gli studi relativi a mappatura cerebrale, meccanismi di codifica, scanning, ricerche visive, ipoteticamente dovuti all’introduzione prematura della lingua scritta di bambini non ancora maturi dal punto di vista della dominanza dei processi LH. Ciò presume che i bambini in questione avranno difficoltà nella lettura, a dispetto di un linguaggio parlato precoce. Per riassumere, questo studio ha dimostrato che le persone con dislessia e disgrafia hanno in comune la difficoltà di scansione da di controllo relativa all'emisfero sinistro. Articoli tratti dalla Biblioteca Online dell'Università degli studi di Parma

domenica 9 marzo 2014

Il manicomio di Reggio Emilia: una storia per tutti

Il manicomio di Sant'Orsola Visitando quel luogo si sente tanta solitudine, le stanze sembrano della celle di un carcere, tutto circondato da sbarre, uno spazio minimo con un letto di ferro...nessun angolo ai muri, nulla di personale che appartenga al paziente, e tanto freddo, un freddo che non è solo fuori, ma ti entra dentro ancora adesso, nonostante quel luogo sia ormai inesistente. Gli strumenti di tortura che sembra siano li per essere ancora usati contro le persone, è come se avessero ancora voglia di far male. Gli spazi angusti dei bagni, con cosi poca dignità...questa sembra una parola grossa in un posto del genere, ma se ne è restata un po': a chi? Per non parlare degli esperimenti condotti su persone che forse, ma dico forse, non è detto che fossero pazze...non è credibile che avessero voglia di esprimersi in modo diverso, di correre, urlare, scappare, sentirsi in pace con se stessi senza far male a nessuno? "Mi hanno rinchiuso perché ero innamorata della persona che non piaceva a mio padre... Mi hanno rinchiusa perché avevo voglia di studiare, scoprire il mondo e viaggiare Mi hanno rinchiuso perché volevo essere un artista Mi hanno rinchiuso perché ero un uomo che amava creare abiti da donna Mi hanno rinchiuso perché mi ero innamorato di qualcuno come me Mi hanno rinchiusa perché avevo della idee Mi hanno rinchiuso perché non volevo farmi sottomettere dagli altri" Giuliana Galante

lunedì 17 febbraio 2014

La regolazione interfasica: L' Arte di Pintapiuma

Le forme del Pensiero Musicale- Musicoterapeuta Dott.ssa Giuliana Galante Diario di una blogger... L'ascolto interfasico e la Regolazione Emotiva L'interfase è il periodo di tempo del ciclo di divisione cellulare delle cellule eucariotiche che intercorre tra una mitosi e la successiva. In tale periodo avviene il processo di duplicazione del materiale genetico (DNA), e di alcuni organelli cellulari, quali i centrioli ed i mitocondri ed in generale l'aumento di massa e di dimensioni della cellula, in modo tale da permettere la formazione di due cellule figlie a partire dalla cellula madre... (Tratto da un qualsiasi libro di biologia....) 27 ottobre 2012 Riparto da qui per una breve analisi su un pittore italiano straordinario riconosciuto per il suo talento in tutto il mondo. Riparto dall'interfase, un tema a me ormai caro non solo per la sua attinenza bio - psico - sociale, ma anche dal punto di vista dell'opera d'arte in Sé. Mi riferisco a Claudio Ruggieri, meglio noto come Pintapiuma.-http://www.pintapiuma.it/
Nell'opera d'arte ritroviamo emozioni, parti del sé e parti del testo, ciò che vorremmo dire a noi stessi prima che agli altri. Dal punto di vista biologico ,secondoAntonio R. Damasio, docente di Neuroscienze, Neurologia e Psicologia presso la University of Southern California, gli esseri umani hanno emozioni e trasmettono emozioni primarie e secondarie; le emozioni secondarie, nonostante siano acquisite, ci permettono di esprimere sentimenti, di vivere l'esperienza come il passaggio corporeo riflesso delle immagini mentali. Nell'arte è fondamentale la razionalità, ma da sola non basta. Sono le emozioni apprese che ci consentono di rispondere al mondo, che si manifestano “come- se”, al di là della nostra consapevolezza, nell'accoglienza di nuovi scenari legati al piacere o al dolore. Ogni creazione per l'artista pone le basi per una nuova relazione tra le emozioni e il sé omeostatico: una regolazione omeostatica che integra presente, passato e futuro. Da un punto di vista psicoanalitico il termine regolazione comporta una lotta continua tra l'Io e il sé. Una volta acquisita la regolazione non è automatica, viene perduta, poi riguadagnata, proprio come l'ispirazione dell'artista, essa dipende dal vissuto soggettivo e dalle esperienze affettive, di cui non sempre siamo consapevoli. Le opere di Pintapiuma rappresentano tutto ciò, lo scorrere e il divenire, il dinamismo e l'evoluzione delle immagini vive. Ogni opera è dinamica e continua a svilupparsi al di là della tela. Una rete concettuale complessa e aperta a una visione globale. Giuliana Galante

lunedì 3 febbraio 2014

Quadro Sporco

Tratto da: http://pintapiuma.it/ Claudio Ruggieri nasce a Genova nel 1961 e nel 1980 si trasferisce a Torino. Oltre alla trentennale attività internazionale come pittore (Studio Lucio Pozzi, New York, U.S.A.; Bacca 1010, San Francisco, U.S.A.), ha un considerevole trascorso come gallerista e talent scout (storiche le gallerie “Pinta” in Genova, ”Piuma” e “Pintapiuma” in Milano). Ruggieri espone a New York e San Francisco nel 2001 alla Bacca 1010 Gallery insieme all’artista Lucio Spinozzi e nello stesso anno a Genova con Giovanni Rizzoli nella mostra “Fotografia Trovata”; ha esposto – tra le sue innumerevoli mostre – al Padiglione delle Marginalità alla 52esima Biennale di Venezia nel 2007 curata dal noto africanista Giuliano Arnaldi. L’iter creativo di Claudio Ruggieri, che lo ha visto, di volta in volta, nelle vesti di artista e gallerista, può indubbiamente definirsi come un percorso ciclico e aperto al tempo stesso, punteggiato di corsi e ricorsi sempre simili e mai uguali, di momenti e di ritorni che sono, contemporaneamente tasselli di una profonda evoluzione interiore. Al culmine di una ricerca iniziata anni prima, produce il primo famoso “quadro sporco”. Il viaggio che ha condotto Claudio Ruggieri al "quadro sporco" è stato una ricerca metafisica svoltasi nell’arco di oltre trent’anni di meditazione sull’arte dei nostri giorni e di interazione con essa. La ricerca del colore assoluto di Ruggieri è una via decisamente “umida”: l’autore mischia, scava nella terra (e nel cielo e nel mare …) e fonde il tutto, non ha paura di sporcarsi, di manipolare la materia per raggiungere un risultato, sempre vicino, sempre lontanissimo e sempre stimolante per la creazione. Un colore puro e contaminato al tempo stesso, innocente e complesso come quello dei bambini che mischiano le tempere per ricreare tutti i colori del mondo, sporco e cristallino come le profondità dell’anima …. Il quadro sporco di Claudio Ruggieri, sospeso in una mancanza di memoria narrativa, raggiunge un equilibrio fuori dal tempo. IL “QUADRO SPORCO” di CLAUDIO RUGGIERI detto PINTAPIUMA Alan Jones Perdre, mais perdre vraiment, pour laisser place à la trouvaille. Guillaume Apollinaire “Il mondo porta l’impronta dell’amore” scrisse William Carlos Williams, poeta ma ancor prima pittore, e questa rimane la cifra immutevole del pittore e il punto di partenza dell’opera di Claudio Ruggieri. Fu Blaise Cendrars ad affermare che la misura del successo della vita di un uomo sta nell’aver vissuto appassionatamente e compiutamente, restande innamorato del mondo malgrado le disillusioni. La forza di volontà messa in campo da Claudio Ruggieri per conquistare il segno trascendente del Quadro Sporco ha fatto appello a questa forma di supremo ottimismo e di visione trasformatrice, ovvero ad uno stato d’animo che va ben oltre il ricorso ormai abituale alla facile ironia e alla banalità. “Non è facile fare un buon quadro” disse un giorno Frank Stella alla radio. Solo un maestro è in grado di esprimere una verità talmente semplice. Il pittore Claudio Ruggieri ha scelto di definire il culmine della sua profonda ricerca pittorica con un termine particolarmente enigmatico: Quadro Sporco (in inglese si direbbe “defiled painting”). Sporcare, tradire, chiazzare, insudiciare, insozzare, imbrattare, inzaccherare, macchiare, sgorbiare. Elegie all’inevitabile perdita dell’innocenza o riti di passaggio, sporcare ció che è immacolato per acquisire una visione sciamanica, purezza riconquistata attraverso un procedimento impuro? La mendacità esige parole vere per proferire le proprie menzogne, lasciando la perduta immagine bucolica di felicità sanguinare così come le reliquie dei santi sanguinano nei giorni prestabiliti, come gli occhi feriti spargono lacrime, come l’immagine diletta svanisce dallo specchio appannato della memoria. Ma i pittori lavorano senza parole, combattono l’oblio in altri termini, annaspano al disopra di quelle visioni esattamente definite che compongono la sfera della nostra consapevolezza, rari istanti carpiti dallo sguardo prima che il magnifico spettacolo del mondo si perda nell’incuranza, amnesia imposta, assenza forzata, contaminazione dei sentimenti, cacciata. Così l’artista si sforza di lottare contro l’indifferenza del tempo disvelando la perduta leggiadria. Il vero artista disvela verità recondite (Bruce Nauman)

Ludwig Mirak, 𝑬' 𝑸𝑼𝑨𝑺𝑰 𝑳'𝑨𝑳𝑩𝑨

In arrivo: LUDWIK MIRAK, E' quasi l'alba Lui è un cantautore di cui sentiremo parlare molto! Si chiama Paolo Karim Gozzo (in arte...