"L'intersoggettività primaria si sviluppa tra il bamino e la figura materna dai 7 ai 9 mesi, attraverso l'attivazione emotiva, l'attenzione verso un oggetto, l'interesse per il viso umano e l'integrazione multisensoriale.
L'intersoggettività secondaria ha inizio dai 9 ai 18 mesi, quando l'attenzione, l'intenzione e lo sguardo diventano congiunti, anche l'emozione segue questo iter, il guardarsi, sorridersi, usare l'espresione delle emozioni come scambio sociale".
Questo è quello che chiunque studi Pedagogia o Psicologia dello sviluppo si trova a studiare sui manuali.
Per quanto tutto questo possa sembrare scontato e semplicistico, parlare di bambini a disagio affetti da patologie genetiche o perinatali è tutt'altra storia.
Nessuno si chiede mai cosa significa parlare con un bambino che non è in grado di rispondere, di dirti se ha fame, se vuole un gioco o se sta male.
E gli altri intorno a lui spesso fingono di non vederlo o che sia uguale agli altri.
La paralisi cerebrale infantile non è solo una patologia, è una condizione di vita che dalla nascita all'ultimo giorno di vita non cambierà il decorso. Si tratta di bambini che vivono tuta la vita come se fossero infanti nella fase orale, rimangono legati alle motivazioni primarie, la fame e i bisogni fisiologici, non fanno null'altro sia a casa sia a scuola.
La scuola per loro è una grande risorsa, è un luogo gioioso e creativo dove la relazione con altri bambini è una forza quotidiana di stimoli, giochi, scambi multisensoriali.
E' l'unico luogo che rende felice alcuni momenti della giornata, quando non ci sono complicazioni di salute, malumori inspiegabili, il rischio che arrivi un attacco epilettico da un momento all'altro, con routines piacevoli, momeni di coccole, contatto con i pari e baci.
Nessuno pensa mai alle famiglie, che vivono dolori continui, che seguono percorsi e consulti medici che non portano a nulla di nuovo, rivivendo oni volta la sofferenza di quando sono venuti a conoscenza della diagnosi.
La relazione col bambino a disagio che si costruisce ogni giorno a scuola, attraverso una buona osservazione partecipante, feedback positivi, frustrazione e amore incondizionato, deve essere elaborata come una spinta ad andare oltre e valorizzare ciò che di buono avviene in quel contesto.
E' una relazione difficile, semplice nelle azioni, ma alquanto complicata nei contenuti da supportare e nella costruzione dei significati.
Una delle poche certezze è che anche il più piccolo gesto quotidiano può migliorare la qualità della vita di chi dovrà convivere con la patologia fino alla fine dei suoi giorni.
Giuliana Galante