giovedì 10 febbraio 2011

http://cronologia.leonardo.it/storia/biografie/deledda.htm

Da Wikipedia

Grazia Deledda nome completo Maria Grazia Cosima Deledda (Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936) è stata una scrittrice e traduttrice italiana, nata in Sardegna e vincitrice del Premio Nobel per la letteratura nel 1926.


Nacque a Nuoro, penultima di sei figli, in una famiglia benestante. Il padre, Giovanni Antonio, era un imprenditore e agiato possidente, fu poeta improvvisatore e sindaco di Nuoro nel 1892; la madre, Francesca Cambosu, era una donna religiosissima e allevò i figli con estremo rigore morale. Dopo aver frequentato le scuole elementari venne seguita privatamente da un professore ospite di una sua parente che le impartì lezioni di italiano, latino e francese; i costumi del tempo non consentivano alle ragazze una istruzione completa oltre quella primaria e in generale degli studi regolari. Successivamente approfondì, da autodidatta, gli studi letterari. Importante per la formazione letteraria di Grazia Deledda, nei primi anni della sua carriera da scrittrice, fu l'amicizia con lo scrittore sassarese Enrico Costa che per primo ne comprese il talento.




Esordì come scrittrice con alcuni racconti pubblicati sulla rivista "L'ultima moda" quando affiancava ancora alla sua opera narrativa quella poetica.

Nell'azzurro, pubblicato da Trevisani nel 1890 può considerarsi la sua opera d'esordio. Ancora in bilico tra l'esercizio poetico e quello narrativo si ricorda, tra le prime opere, Paesaggi edito da Speirani nel 1896.



Nel 1900, sposò Palmiro Madesani, funzionario del Ministero delle Finanze conosciuto a Cagliari nell'ottobre del 1899 la scrittrice si trasferì a Roma e in seguito alla pubblicazione di Anime oneste del 1895 e di Il vecchio della montagna del 1900, oltre alla collaborazione sulle riviste "La Sardegna", "Piccola rivista" e "Nuova Antologia", la critica inizia ad interessarsi alle sue opere, che vantano prefazioni di nomi quali Ruggero Bonghi e Luigi Capuana.



Nel 1903 pubblica Elias Portolu che la conferma come scrittrice e la avvia ad una fortunata serie di romanzi e opere teatrali: Cenere (1904), L'edera (1908), Sino al confine (1911), Colombi e sparvieri (1912), Canne al vento (1913), L'incendio nell'oliveto (1918), Il Dio dei venti (1922). Da Cenere fu tratto un film interpretato da Eleonora Duse.



La sua opera fu stimata da Capuana e Verga oltre che da scrittori più giovani come Enrico Thovez, Pietro Pancrazi e Renato Serra. La sua casa natale, nel centro storico di Nuoro (Santu Predu), è adibita a museo. Grazia Deledda fu anche traduttrice, sua infatti una versione di Eugénie Grandet di Honoré de Balzac.



Poetica
Tomba di Grazia Deledda nella Chiesa della Solitudine a NuoroLa narrativa della Deledda si basa su forti vicende d'amore, di dolore e di morte sulle quali aleggia il senso del peccato, della colpa, e la coscienza di una inevitabile fatalità.
È stata ipotizzata una somiglianza con il verismo di Giovanni Verga ma, a volte, anche con il decadentismo di Gabriele D'Annunzio, oltre alla scrittura di Lev Nikolaevič Tolstoj e di Honoré de Balzac di cui tra l'altro la Deledda tradusse in italiano l'Eugenia Grandet. Tuttavia la Deledda esprime una scrittura personale che affonda le sue radici nella conoscenza della cultura e della tradizione sarda, in particolare della Barbagia.




« Intendo ricordare la Sardegna della mia fanciullezza, ma soprattutto la saggezza profonda ed autentica, il modo di pensare e di vivere, quasi religioso di certi vecchi pastori e contadini sardi (...) nonostante la loro assoluta mancanza di cultura, fa credere ad una abitudine atavica di pensiero e di contemplazione superiore della vita e delle cose di là della vita. Da alcuni di questi vecchi ho appreso verità e cognizioni che nessun libro mi ha rivelato più limpide e consolanti. Sono le grandi verità fondamentali che i primi abitatori della terra dovettero scavare da loro stessi, maestri e scolari a un tempo, al cospetto dei grandiosi arcani della natura e del cuore umano... »

(Discoteca di Stato: parole registrate nella serie "La Voce dei Grandi", anche in "Il Convegno", Omaggio alla Deledda (N. Valle), 1959.)



La critica in generale tende a incasellare la sua opera di volta in volta in questo o in quell'-ismo: regionalismo, verismo, decadentismo... Altri critici invece preferiscono riconoscerle, com'è dovuto ai grandi autori, l'originalità della sua poetica: per quanto ben inserita nel contesto del Novecento europeo, essa tutto sfiora, senza a niente appartenere. Nonostante la grande autrice abbia scritto in italiano si potrebbe tuttavia dire che appartiene alla letteratura sarda.



Il sapore vagamente verista della sua produzione le procurò le antipatie degli abitanti di Nuoro, in cui le storie erano ambientate. I suoi concittadini erano infatti dell'opinione che descrivesse la Sardegna come terra grezza ed arretrata. In realtà non era intenzione della Deledda assumersi un impegno sociale come quello che spesso caratterizzò il Verismo.



La Deledda e la critica [modifica]



Grazia Deledda ritratta con il marito e il figlioIl primo a dedicare a Grazia Deledda una monografia critica a metà degli anni trenta fu Francesco Bruno. Nella storia letteraria di Attilio Momigliano, in quella di Francesco Flora e in quella di Natalino Sapegno, negli anni quaranta-cinquanta, probabilmente ancora sessanta, nelle storie e nelle antologie scolastiche della letteratura italiana, la presenza della Deledda aveva grande rilievo critico e numerose pagine antologizzate, specialmente dalle novelle. In una antologia, di Sapegno per il ginnasio, era pubblicato uno dei suoi capolavori: la novella di Cristo mietitore.



E tuttavia i critici si trovavano in difficoltà nel collocarla storicamente tra Verismo o Decadentismo. La sua opera finiva per non collimare mai né coi loro parametri né sulla "carta millimetrata del Novecento". Si pretese di giudicarla sulla base di schemi che non superavano la barriera del Naturalismo e di una teoria della lingua e dell'arte che non poteva comprendere la complessità del sistema letterario in Sardegna. Probabilmente devono essere state queste le ragioni, insieme alla concezione dell'arte come rispecchiamento della realtà, che ne determinarono l'eclissi, presso i critici, non presso il grande pubblico.



E tuttavia le spetta indubbiamente un posto da comprimaria nel primo novecento, insieme a Pirandello, anche lui Premio Nobel, a distanza di appena dieci anni:



« Per la sua ispirazione idealistica, scritta con raffigurazioni di plastica chiarezza della vita della sua isola nativa, con profonda comprensione degli umani problemi »

(Motivazione del Premio Nobel)



I critici italiani giudicavano in ogni caso la sua opera astrusa e cerebrale. E proprio Pirandello, anche lui del gruppo della Nuova Antologia, nutriva rispetto e considerazione per la Deledda, ne intuiva il talento, capiva che scriveva per rappresentare l'essenza della vita nella sua tragicità. Come i veri, grandi narratori, quelli russi in particolare.



I primi a non comprendere la Deledda furono tuttavia i suoi conterranei, escludendo naturalmente quei pochi, che la compresero subito: Ruju, Biasi e altri che facevano parte di quel clima. Molti degli intellettuali sardi del suo tempo si sentirono traditi e non accettarono la sua operazione letteraria.



L'attività di Grazia Deledda nell'ambiente dei pittori della Secessione nell'arte e della Secessione romana è una questione poco indagata nel Novecento. Il rapporto tra la Deledda del periodo romano e gli artisti suoi contemporanei resta legata tanto all'immagine etnografica, quanto alle domande importanti sull'arte in generale che i movimenti della Secessione ponevano sia in pittura che in letteratura. Quella poca attenzione per il versante pittorico-letterario ha spinto i critici a lasciare che la Deledda, restasse per abitudine inclusa nella cultura del Verismo. Eppure la Deledda nel periodo romano aveva adeguato la sua formazione ai livelli alti dell'arte europea. Frequentava non solo Plinio Nomellini che la ritrasse in un dipinto, ma anche altri artisti della Secessione romana (Cambellotti, Prini, Antonio Maraini, che curava le Biennali d'arte di Venezia, Dazzi, Viani, i Cascella). Il suo interesse per la pittura e per l'arte era autentico, si teneva al corrente delle esposizioni, scriveva i testi per le presentazioni di mostre. Abitava, insieme ad altri artisti e giornalisti, in un quartiere sulla Nomentana dove aveva il suo grande studio Ettore Ximenes, scultore di gruppi marmorei dell'Altare  della Patria.
Molte considerazioni suscitano ancora oggi le scelte stilistiche che riguardano più direttamente la lingua e i linguaggi nella prosa narrativa di Grazia Deledda. È stata la stessa Deledda a chiarire più volte, nelle interviste e nelle lettere, la distanza tra la cultura e la civiltà sarda e la cultura e la civiltà italiana. Ma anche questo suo parlare liberamente del proprio stile e delle proprie lingue ha suscitato e suscita soprattutto oggi interpretazioni fuorvianti, e tuttavia ripropone senza posa l'intenso rapporto tra civiltà-cultura-lingua come una equazione mal risolta.




In una sua lettera scrive: "Leggo relativamente poco, ma cose buone e cerco sempre di migliorare il mio stile. Io scrivo ancora male in italiano - ma anche perché ero abituata al dialetto sardo che è per se stesso una lingua diversa dall'italiana". La lingua italiana è quindi, per lei sardofona, una lingua non sua, una lingua che deve conquistarsi. La composizione in lingua italiana, per uno scrittore che assuma la materia della narrazione dal proprio vissuto e dal proprio universo antropologico sardo, presenta numerose e sostanziali difficoltà e problemi. Né il dibattito recente sul bilinguismo è riuscito ancora a chiarire questo rapporto di doppia identità. Doppia identità per questa specie particolare di bilinguismo, e di diglossia che è stata per secoli la "condizione umana degli scrittori italiani non toscani; ma anche dei toscani, quando non componevano in vernacolo".



L' attività epistolare e autocorrettoria di Grazia Deledda è ben ponderata, cosa che non le impedì di scrivere in lingua italiana questa lettera del 1892 sull'italiano: "Io non riuscirò mai ad avere il dono della buona lingua, ed è vano ogni sforzo della mia volontà". Dall'epistolario e dal suo profilo biografico si evince un distinto senso di noia per quei manuali di "lingua" italiana che avrebbero dovuto insegnarle lo stile e che sarebbero dovuti esserle di aiuto nella formazione della sua cultura letteraria di autodidatta, di contro emerge una grande abitudine alla lettura e una grande ammirazione per i maestri narratori attraverso la lettura dei loro romanzi.



Quella della Deledda era una scrittura moderna che ben si adattava alla narrazione cinematografica, infatti dai suoi romanzi vennero tratti diversi film già nei primi anni Dieci del XX secolo. Nel 1916 il regista Febo Mari aveva iniziato a girare Cenere con l'attrice Eleonora Duse, purtroppo a causa della guerra il film non fu mai concluso.



Nel più recente dibattito sul tema delle identità e culture nel terzo millennio, il filologo sardo Nicola Tanda ha scritto: "la Deledda, agli inizi della sua carriera, aveva la coscienza di trovarsi a un bivio: o impiegare la lingua italiana come se questa lingua fosse stata sempre la sua, rinunciando alla propria identità o tentare di stabilire un ponte tra la propria lingua sarda e quella italiana, come in una traduzione. Comprendendo però che molti di quei valori di quel mondo, di cui avvertiva imminente la crisi, non sarebbero passati nella nuova riformulazione. La presa di coscienza, anche linguistica, della importanza e dell'intraducibilità di quei valori, le consente di recuperare termini e procedimenti formali del fraseggio e della colloquialità sarda che non sempre trovano in italiano l'equivalente e che perciò talora vengono introdotti e tradotti in nota.



Nei dialoghi domina meglio l'ariosità e la vivacità della comunicazione orale, di cui si sforza di riprodurre l'intonazione, di ricalcare l'andamento ritmico. Accetta e usa ciò che è etnolinguisticamente marcato, imprecazioni, ironie antifrastiche, risposte in rima, il repertorio di tradizioni e di usi, già raccolto come materiale etnografico per la Rivista di tradizioni popolari, che ora impiega non più come reperto documentario o decorativo ma come materiale estetico orientato alla produzione di senso. Un'operazione tendenzialmente espressionistica che la prosa italiana, malata di accademismo con predilezione per la forma aulica, si apprestava a compiere, per ricavarne nuova linfa, tentando sortite in direzione del plurilinguismo o verso il dialetto."



La Deledda, mettendo in comunicazione due sistemi linguistici e letterari diversi, inaugura una nuova, grande stagione narrativa. Di questa partecipano grandi scrittori che, pur appartenendo a piccole comunità locali, riescono a stabilire una comunicazione con il resto del mondo. Sono quegli scrittori che non accettando l'omologazione ma mantenendo fortissima l'appartenenza alla cultura originaria, valorizzano la propria lingua non come un dialetto di ambiente domestico ma come un veicolo di conoscenza e di elevazione culturale. La lingua sarda è per Grazia Deledda condicio sine qua non per la nuova scrittura in italiano, è coscienza della propria lingua, è conoscenza del mondo, è percezione e anima perché è la lingua della madre: la lingua materna.



La Deledda e i narratori russi [modifica]



La scrittrice Grazia DeleddaÈ noto che la giovanissima Grazia Deledda, quando ancora collaborava alle riviste di moda, si rese conto della distanza che esisteva tra la stucchevole prosa in lingua italiana di quei giornali e la sua esigenza di donna sardofona di impiegare una lingua italiana più vicina alla realtà antropologica della società dalla quale proveniva. Si era proposta perciò di costruire una letteratura sarda, cioè una letteratura sarda anche in lingua italiana che rispondesse a quello sguardo antropologico col quale gli scrittori guardavano il loro popolo e costruivano le grandi letterature nazionali.



E gli anni degli inizi della Deledda erano già quelli nei quali gli scrittori di nazioni più piccole e minoritarie si adattavano a creare un ponte, un diasistema tra il sistema linguistico e letterario dal quale provenivano e il sistema letterario alto e nobile di arrivo delle grandi letterature europee. Essi, come del resto avevano fatto i grandi scrittori russi lungo il Settecento, volevano trasferire l’universo antropologico dei loro popoli in una scrittura russa profondamente influenzata da ormai quasi due secoli di europeizzazione. La Sardegna, tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, tenta come l’Irlanda di Oscar Wilde, di Joyce, di Yeats o la Polonia di Conrad, un dialogo alla pari con le grandi letterature europee e soprattutto con la grande letteratura russa.



La popolarità degli scrittori russi in Italia e in Sardegna alla fine dell'Ottocento è ben documentata e non ha bisogno di conferme. In materia di comparazioni la Sardegna rappresenta certamente un caso singolare e per la recente comparsa nella letteratura della Nuova Italia dopo i quattro secoli di appartenenza all’universo della letteratura iberica e anche per la scelta della letteratura di un popolo come quello russo antropologicamente più affine a quello sardo. È questa la singolarità dalla quale si deve partire se si vuole dare senso retrospettivo ad entrambi i termini del paragone. Nella sua immaginazione di un progetto letterario narrativo, in lingua italiana la Deledda si prepara a riprodurre un modello esterno collaudato, ma distante e perciò spesso inafferrabile, per riconoscere una propria identità. È probabilmente questa una tra le spiegazioni per rendere conto della difficoltà che i critici hanno riscontrato nel volerla collocare. Poco inquadrabile e maneggevole secondo il canone corrente e quindi poco studiata e poco compresa sia in Russia, sia in Italia.



Eppure il mondo ad est, raramente nominato, veniva visto in modo astratto come un mondo letterario immenso - modello narrativo del grande romanzo dell'Ottocento -, il quale si incontra e si materializza nell'isola insieme a quello francese e inglese, ma che viene ancora oggi stranamente allineato, nell'immaginario collettivo e nella critica con la gallomania, l'anglofilia e la germanofilia degli scrittori italiani.



Ritornando ai rapporti tra la Sardegna e la Russia di cui si è fatto cenno e all'immaginario letterario, bisogna dire che aveva trovato consistenza nelle Tradizioni popolari di Nuoro in Sardegna di Grazia Deledda. Quelle pagine recano, nell'epigrafe, le parole di Tolstoj: «Le espressioni popolari usate sole non hanno alcun valore, ma collocate a proposito colpiscono per la loro profonda saggezza. Leone Tolstoj».



Nicola Tanda nel saggio, La Sardegna di Canne al vento scrive che, in quell’opera della Deledda, le parole evocano memorie tolstojane e dostoevskiane, parole che possono essere estese a tutta l'opera narrativa deleddiana: «L'intero romanzo è una celebrazione del libero arbitrio. Della libertà di compiere il male, ma anche di realizzare il bene, soprattutto quando si ha esperienza della grande capacità che il male ha di comunicare angoscia. Il protagonista che ha commesso il male non consente col male, compie un viaggio, doloroso, mortificante, ma anche pieno di gioia nella speranza di realizzare il bene, che resta la sola ragione in grado di rendere accettabile la vita».



L'opera deleddiana, sulle prime, sembrerebbe porre una equazione che potrebbe imparentare la Sardegna e la Russia, la cultura rurale e contadina russa (quella dei possidenti terrieri che erano proprietari e amministratori di villaggi e dei loro contadini che venivano contati in anime) e in lingua russa, isolata ad Est, entra velocemente in meno di cento anni nel sistema letterario europeo attraverso un processo di occidentalizzazione che viene definito: europeizzazione e modernizzazione. Pietroburgo, la città edificata dagli architetti italiani, dichiara l’accettazione di un modello e di una rappresentazione dell'Occidente che, in meno di cinquant'anni determina l’istituzione di Università, giornali, teatri, editoria, tecnologia e una lingua letteraria moderna. La nuova creatività letteraria non è nata solo da questo processo di modernizzazione perché parla la lingua della poesia che era del neoclassicismo settecentesco e ottocentesco in un russo appena formalizzato.



Negli anni di apprendistato letterario di Grazia Deledda la lingua letteraria russa, sia pure tradotta, che arriva ad Occidente e in Italia non è più la lingua della poesia classicista ma è quella lingua (romantica) che si è impiantata e diffusa agli inizi dell'Ottocento e che prepara già in prosa la voce del grande romanzo russo. Il romanzo della seconda metà dell'Ottocento che ha trasformato però ogni cosa, celebra la nascita di una corrente di pensiero nuova che secondo la definizione della critica letteraria russa contemporanea viene chiamata: corrente tolstojana. Ma questa conserva già, rispetto alla narrativa occidentale, lo sguardo antropologico che ricorda i saperi del popolo russo e del suo rapporto con la natura e con le stagioni.



La lingua attraverso la quale Grazia Deledda entra in contatto con la letteratura russa è l'italiano. La lingua italiana domina nel processo di acculturazione unitaria della Nuova Italia. Questa lingua rappresentava un limite e produceva distorsioni del messaggio, intanto perché dovendo lei sardofona tradurre dal sardo la metteva di fronte ad una alternativa, o quella che avrebbe potuto allontanarla nel tradurre dal suo universo antropologico oppure quella che avrebbe potuto, al contrario, offrirle la soluzione. Ed era in fondo quella impiegata già dagli scrittori russi nel tradurre nella lingua russa l’universo antropologico delle lingue dei loro popoli.



Negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, quelli in cui la scrittrice si dedica alla ricerca di un proprio stile, concentra la sua attenzione, sull'opera e sul pensiero di Tolstoj. Ed è questo incontro che sembra aiutarla a precisare sempre meglio le sue predilezioni letterarie. In una lettera in cui comunicava il progetto di pubblicare una raccolta di novelle da dedicare a Tolstoj, Deledda scriveva: «Ai primi del 1899 uscirà La giustizia: e poi ho combinato con la casa Cogliati di Milano per un volume di novelle che dedicherò a Leone Tolstoi: avranno una prefazione scritta in francese da un illustre scrittore russo, che farà un breve studio di comparazione fra i costumi sardi e i costumi russi, così stranamente rassomiglianti». La relazione tra la Deledda e i russi è ricca e profonda, e non è legata solo a Tolstoj ma si inoltra nel mondo complesso degli altri contemporanei: Gor'kij, Anton Čechov e quelli del passato più recente, Gogol', Dostoevskij e Turgenev.



La lettura dei russi trova la Deledda predisposta già dal suo intento letterario narrativo a trovare conferma che anche la Sardegna (così come avevano fatto i russi con la lingua e la tradizione orale russa in meno di un secolo) potesse entrare nella circolazione letteraria nazionale ed europea. Dalle sue lettere si ricavano i fili di un ordito che lei tesse pazientemente in ogni luogo o occasione in cui può aprirsi uno spiraglio per introdurre le sue opere che veramente hanno già in sé una straordinaria vocazione europea. Una voce nuova come era stata quella degli scrittori russi, quella degli scrittori di frontiera che doveva poi esplodere nel Novecento.



I russi per Grazia Deledda sono solo un esempio, ma sono un esempio determinante. Essi vengono percepiti ovunque la scrittrice dia corpo e animazione a dei personaggi, che sono tragicamente turbati da una realtà oggettiva nella quale si realizzano il bene e il male, il delitto e il castigo, nella quale il travaglio generazionale tra padri e figli diventa materia narrativa, e il conflitto tra il vecchio e il nuovo, tra la tradizione e il progresso produce degli eroi che appaiono ancora oggi vivi e inquietanti. I russi sono solo un esempio un modello inimitabile. La sostanza, gli arredi, il contenuto antropologico, il paesaggio e la storia, la psicologia, i linguaggi degli eroi nei suoi romanzi sono un affare della propria casa ed essi non si possono né imitare, né mutuare.



Riconoscimenti [modifica]

Le è stato dedicato un cratere di 32 km di diametro sul pianeta Venere. Un traghetto porta il suo nome, Deledda. Il compositore nuorese Ignazio Pes le ha dedicato varie composizioni vocali e strumentali, ispirate ad alcuni romanzi e poesie.



Opere principali [modifica]



Grazia Deledda nel suo studio romanoFior di Sardegna (1892)

La via del male (1892)

Racconti sardi (1895)

Anime oneste (1895)

Elias Portolu (1903)

Cenere (1904)

Nostalgie (1905)

L'edera (1906)

Canne al vento (1913)

Marianna Sirca (1915)

La madre (1920)

La fuga in Egitto (1925)

Il sigillo d'amore (1926)

Annalena Bilsini (1927)

Il paese del vento (1931)

Cosima (1937) pubblicato postumo

Il cedro del Libano (1939) pubblicato postumo





Ludwig Mirak, 𝑬' 𝑸𝑼𝑨𝑺𝑰 𝑳'𝑨𝑳𝑩𝑨

In arrivo: LUDWIK MIRAK, E' quasi l'alba Lui è un cantautore di cui sentiremo parlare molto! Si chiama Paolo Karim Gozzo (in arte...